Tromp-l’oeil è un’espressione francese che noi tradurremmo come inganno o illusione.

Sull’ultimo pianerottolo dello scalone che introduce alla sala di lettura chi volesse allungare la mano a prendere qualcuno dei libri disposti in chiara mostra, di quell’inganno avrebbe l’immediata percezione: infatti non si troverebbe a toccare degli antichi volumi ma una tela dipinta.

Per preparare il lettore al magnifico spettacolo che avrebbe trovato entrando nella biblioteca Fabroniana si pensò di far eseguire un pannello decorato da anteporre alla vera e propria porta di entrata.

Si tratta di una tela dipinta su entrambi ei lati e incorniciata con assi di legno a loro volta incardinati come una porta.

Non esistendo notizie certe sull’esecuzione di questa tela ci limiteremo a darne una descrizione e a fornire delle possibili tesi sulla sua esecuzione.

La tela presenta nella sua parte anteriore una decorazione che riproduce uno scaffale ligneo di libreria. Nella parte alta del dipinto i libri sono armonizzati nelle legature, nella disposizione sugli scaffali in naturale alternanza tra pieni e vuoti, nella tangibilità della loro presenza.

Riusciamo a leggere nei dorsi dei volumi di che cosa si tratti e con sorpresa notiamo che sono dipinti gli stessi testi poi presenti nei ‘veri’ scaffali della biblioteca poco più avantii.

Purtroppo la datazione di questi volumi non ci permette di datare l’esecuzione della porta perché i libri dipinti sono nella loro realtà ‘libraria’ tutte edizioni anteriori alla edificazione della Fabroniana. Solo la presenza di un testo posizionato nella dimensione’dipinta’ sopra gli altri volumi e recante la scritta “Catalogo “ ci può far datare la porta dopo il 1737. E’ in fatti a quella data che si riferisce il primo catalogo della bibliotecaii

Tangibile e quasi a portata di mano sono anche gli oggetti in primo piano: il calamaio e il foglio di carta scritto con un pennino d’oca.

Mentre il calamaio dipinto ritrae quasi sicuramente quello ‘reale’ in argento appartenuto al cardinale Fabroni, che ha la stessa forma, sulla carta, resa quasi del tutto illeggibile dall’usura dei tempi, non è possibile rintracciare un documento realmente contenuto tra le filze dei manoscritti. E’ presumibile però che questa carta possa essere messa lì come cartiglio di dedica con la firma dell’esecutore del dipinto.

Nonostante questa tela abbia sicuramente un efficace effetto scenografico essa rivela nella sua esecuzione la mano di un artista non di grandissimo valore; manca quasi del tutto il senso prospettico e la pennellata appare spesso incerta.

A differenza di quanto finora detto su tale opera, cioè che fu eseguita durante i lavori di decorazione dello scalone e potrebbe quindi attribuirsi o a Girolamo Tani detto il Frelli, l’ ipotesi a mio parere più probabile, è che la porta fosse eseguita alcuni anni più tardi, e tornerebbe la data sopra accennata del 1737, forse da un decoratore che lavorava nell’adiacente convento dei Filippini, o addirittura da uno stesso membro di tale ordine che si dilettava nella pittura.

Ad avvalorare questa tesi concorrerebbe il fatto che nella parte interna della porta, o retro della tela, accanto allo stemma del cardinale fondatore viene costruito lo stemma degli Oratoriani.

Si tratta un blasone dove il cuore fiammeggiante oltre a ricordare il cuore di san Filippo e l’infusione dello Spirito Santo nel suo costato, simboleggia altresì, il vicolo della carità che deve unire i confratelli oratoriani. I due gambi di gigli, fioriti e fogliati, rappresentano quindi, i simboli dell’innocenza e della purezza, virtù da coltivare e perseguire. Infine le tre stelle a 8 punte mal ordinate, sono il richiamo alla verginità di Maria.

Di porte dipinte erano piene le case nobiliari anche pistoiesi del Settecento. Vi erano stuoli di decoratori che lavoravano per dare a quei palazzi l’importanza e la dignità di una casata di tale rango.

Ma l’esempio della Fabroniana è sicuramente un ‘caso’ a se stante che a mio parere ricorda e suggerisce un dipinto di prestigiosa mano conservato nel Conservatorio della Musica di Bologna.

Mi riferisco a l’opera che, verso la fine del secondo decennio del Settecento, Giuseppe Maria Crespi (Bologna, 1665-1747) inventò per decorare due sportelli di libreria.iii

Il Crespi, detto lo “Spagnolo” per la foggia prediletta dei suoi abiti, riuscì a condensare in quelle superfici, con fedeltà alla materia e intelligenza degli spazi, comprensione dei contenuti culturali e vita vissuta.

Nell’opera, dove si intravede la lezione stimolante dei grandi pittori olandesi e spagnoli del Seicento, protagonisti sono gli oggetti, addirittura i componenti di essi, la carta , la pergamena, le pelli più o meno consunte, variabili in tono sommesso a secondo delle vibrazioni della luce o del maggior accumulo della polvere. Anche nell’opera di Crespi riusciamo a leggere sui dorsi di che cosa si tratti: musica ovviamente e anche qui tangibili sono gli oggetti da scrittura sul primo ripiano: il calamaio con la penna, gli spargi pomice, l’anforetta con l’inchiostro, il mazzetto legato di penne d’oca.