Il nucleo originario del fondo manoscritti fabroniano risale alla biblioteca privata del cardinale Fabroni, la cui solerte attività di ricercatore e collezionista costituì un corpus di materiale raro e di pregio.

Pur non essendo facile ricostruire la consistenza iniziale del fondo poiché non esiste un inventario di entrata del fondo manoscritti riferito al momento della donazione del cardinale, possiamo tuttavia ritenere che gran parte dei codici fossero presenti nella collezione romana del Fabroni.

Il primo indice dei manoscritti risale all’anno 1808. Si tratta di un elenco compilato dal bibliotecario in carica, Iacopo Cari, “non secondo i nomi degli autori (che per lo più non si sanno) ma delle materie , che contengono”.

L’inventario comprende trecentoventotto manoscritti dei quali i primi settantadue “non sono a forma di libro , ma di Involti”.

Le materie di questo primo gruppo di codici sono le seguenti: Bolle pontificie, censure di libri, collegi e congregazioni, controversie, corti, giansenismo, scritture legali, lettere, missioni, Papa, penitenzieria, istoria, teologia e scritture particolari.

Seguono i manoscritti “legati in foglio e in 4° di materia riguardante Roma, Bolle, Brevi Pontifici e atti concistoriali” ed ancora poesia, storia e teologia, poi quelli “legati in sesto più piccolo” tra i quali un gran numero di testi di filosofia, storia, poesia e teologia.

E’ segnalato infine un gruppo di codici “in carta pecora e altri di qualche pregio particolare” compresi tra i numeri di segnatura 303 e 328 tra i quali viene evidenziato un “tetraevangelon greco di sommo pregio”

Un successivo, ma parziale inventario dei manoscritti risale al 1869 quando Eugenia Fabroni dona alla Fabroniana i manoscritti conservati presso la famiglia. I sessantanove testi acquisiti vengono contrassegnati con una numerazione consequenziale al quella dei fondo già esistente al quale nel frattempo si erano aggiunti altri cinque codici tra i quali il libro di costruzione della biblioteca e il libro di amministrazione dal 1732 al 1820 

Gran parte dei codici donati dalla contessa Eugenia e conservati in parte nel palazzo di famiglia in via S. Andrea in parte nella villa di Celle di Santomato sono costituiti da documenti originali del cardinale e attengono alle svariate occupazioni e incarichi da lui svolti a Roma.

Fanno parte di questo nutrito gruppo una serie di codici sulle missioni in diverse parti del mondo dall’Olanda alla Cina, dal Giappone all’Africa del Nord, costituiti da raccolte di carte relative alle pratiche della Congregazione di propaganda Fide tenute dal Fabroni nella qualità segretario prima, poi in quella di ponente di causa dopo l’elezione al cardinalato.

Si segnalano ancora documenti relativi alla Congregazione della Disciplina, alla Congreagazione dei Riti al Collegio germanico, ed ancora carte relative agli affari temporali e spirituali dei vallombrosani e dei lateranensi occorsi nel periodo del protettorato del Fabroni, così come documenti dell’amministrazione economica e morale dell’Abbazia di S. Galgano goduta dal Fabroni nei primi anni del settecento.

Tra le carte appartenute al cardinale sono da evidenziare una collezione di documenti riguardanti le procedure tenute dalla corte pontificia tramite il Fabroni, ponente di causa contro le proposizioni di Quesnel e le approvazioni date al suo libro sulle riflessioni del nuovo testamento dall’arcivescovo di Parigi, cardinale di Noailles. In questa raccolta si incontrano numerosi documenti e pratiche tenute dal Fabroni affinchè in Francia venisse riconosciuta la bolla Unigenitus dei filius.

Tra gli scritti originali di Sua Eminenza vi sono poi discorsi o allocuzioni dogmatiche e sulla disciplina ecclesiastica e una serie di carteggi con personaggi importanti come l’imperatore Leopoldo I, il duca di Modena, il Gran Duca di Toscana e numerosi cardinali. Le materie che si trattano in questa corrispondenza epistolare sono relative agli impegni sostenuti dal Fabroni e hanno spesse volte per soggetto auguri e felicitazioni.

Si notano, infine, in questa raccolta di lettere alcune scritte in gran parte da Parigi o Bruxelles dal relatore segreto di Roma in quelle città in stretta corrispondenza col Fabroni precedute da una spiegazione delle loro forme enigmatiche, chiaramente usate per non rendere palesi i contenuti assai importanti e segreti.

Tra i manoscritti donati nel 1869 vi sono poi una serie di codici dei quali alcuni ancora appartenuti al cardinale altri invece sicuramente esistenti in casa Fabroni anche precedentemente alla nascita di Carlo Agostino. Si segnalano una Cronaca Pisana del XVI secolo legata in pergamena, l’autografo della Vita di Giovanni Visconti scritto da Benedetto Fabroni, zio del nostro cardinale, poi pubblicata da Leone Stella Romano ed ancora sempre di Benedetto una raccolta di sermoni.

I manoscritti di casa comprendono anche testi di liturgia in greco, prediche e varie opere di poesia ed un interessante nucleo di testi inerenti l’attività del Sacro militare ordine di S. Stefano, ordine al quale la nobile famiglia Fabroni nei secoli aveva dato molti cavalieri, tra i quali alcuni avevano rivestito alte cariche come gran conservatore e capitano di galera.

Proprio a un capitano, Domenico, appartiene il manoscritto più importante del fondo, un codice legato in pergamena recante il titolo Viaggi fatte soprale Galere della Sacra, et Ill.ma Religione di san Stefano Papa, e martire Del Cavaliere Capitano Domenico Fabroni di Pistoia, e dal medesimo scritti fedelmente.

Domenico era figlio di quell’Atto Fabroni che aveva messo su nel palazzo pistoiese un’importante raccolta libraria alla quale come abbiamo visto molto probabilmente attinse anche il nostro cardinale che era nipote di Atto

Il codice di Domenico che si apre con un bellissimo frontespizio a colori , riporta dal 1664 al 1700, dettagliate descrizioni di viaggi, corredate di date di partenza e di arrivo, di notizie sugli sbarchi e sulla composizione degli equipaggi, nonché sulla vita di bordo sulle galere stefaniane.

A queste interessantissime note di quasi un quarantennio di peregrinazioni di un cavaliere, che assunse per molti anni il comando di unità stefaniane anche in missioni di grande importanza, si aggiungono elenchi sulle navi nemiche catturate, sugli sbarchi effettuati e dati numerici di schiavi catturati e di cristiani liberati.

Oltre a questo interessante manoscritto, in questo gruppo di codici, sono comprese altre opere autografe appartenenti a Domenico, tra le quali un manuale di regole da seguire per i capitani di galera e un originale codice nel quale sono riportate le indicazioni per la costruzione delle galere e ancora alcuni libri di mercatura in arabo, sicuramente venuti in mano a Domenico a seguito della cattura di un vascello nemico.

Dopo la donazione del 1869 non si contano nuove acquisizioni che incrementarono il fondo manoscritti che risulta quindi composto da oltre quattrocento codici.

Come abbiamo già visto il fondo fabroniano essenzialmente ha le caratteristiche di un archivio personale di un importante uomo di Chiesa.

Gran parte dei codici, riguardano problemi politici, amministrativi, dogmatici e teologici, numerose sono le relazioni e i carteggi di nunzi e ambasciatori, copie di atti ufficiali e relazioni di cui si occupò il Fabroni in oltre quaranta anni di carriera ecclesiastica.

Oltre a questa raccolta possiamo evidenziare la notevole presenza di codici riferibili al papa Clemente IX Giulio Rospigliosi, che molto probabilmente il Fabroni riuscì a raccogliere a Roma , visto il suo stretto legame con la famiglia pistoiese.

Tra i vari carteggi del papa in gran parte originali si segnala la presenza nel fondo fabroniano di un manoscritto autografo di Giulio Rospigliosi.

Si tratta di un codice cartaceo, rilegato in cartone rosa dell’epoca con un legaccio di cuoio. Sul piatto della legatura è scritto Giulio Rospigliosi. Commedie, mentre sul dorso Adrasto Tragedia oltre che il riferimento numerico del volume. Il testo che presenta la tragedia in cinque atti scritta dal Rospigliosi è pieno di correzioni in interlinea o nei margini di vari passi e presenta molti tratti a penna in senso verticale ad evidenziare gruppi di versi di consistenza varia. La copia presente nella Fabroniana , messa confronto con altri esemplari conservati in istituzioni romane è una bella copia, ma non opera di un amanuense professionale, bensì di un autore che scrive per sé più che per gli altri, ordinatamente, ma non senza una sua certa personalità grafica, e che infine, interviene a mutare i suoi versi correggendoli liberamente.

Il codice Fabroniano, insomma, è un tipico manoscritto di lavoro, su cui l’autore è intervenuto per correggersi, da lui destinato ad essere poi affidato a un copista per la sua messa in pulito”.

Sempre riferibili al papa Rospigliosi sono alcuni manoscritti che documentano il suo studio presso il Collegio Romano così come altri manoscritti sono testimoni del corso triennale di filosofia che il giovane Carlo Agostino seguì a Pistoia con Luigi Goti, presso il collegio dei Gesuiti di Pistoia.

A questo gruppo di manoscritti moderni appartiene anche il nucleo di ben trentacinque codici appartenuti a Bonifacio Vannozzi, dotto ecclesiastico pistoiese di cui parleremo più avanti.

Nel fondo manoscritti della Fabroniana è conservato un gruppo nucleo di manoscritti medievali e rinascimentali, latini e greci vario sia per provenienza che per contenuto.

Il codice più noto è un Tetravangelo greco che la sottoscrizione del copista permette di datare con sicurezza al 1330.

Si tratta di un codice membramenaceo di origine bizantina privo di legatura. La mancanza della coperta può indurci a pensare che questa, visto molto probabilmente la ricca decorazione in oro e gemme preziose, sia stata oggetto di furto forse proprio durante il viaggio del testo da Bisanzio a Roma.Il codice fu donato dal cardinale Carlo Agostino alla biblioteca pistoiese, ma non abbiamo elementi che possono fornirci notizie anteriori alla provenienza Fabroni, ne trova riscontro documentario un uso che di questo tetra vangelo avrebbero fatto i legati greci al concilio di Firenze del 1438-39. Il testo è scritto su una pergamena chiara e ben levigata da un copista di professione, buon conoscitore dei codici bizantini anteriori e presenta un ricco apparato figurativo e ornamentale. Le cornici polilobate (Matteo e Marco) o rettangolari (Luca e Giovanni) all’inizio di ciascun Vangelo, racchiudono le figure degli Evangelisti su fondo oro e con l’ornamento geometrico di motivi fitomorfi in una ricca varietà cromatica che va dall’azzurro, al rosso, al verde al violetto. Le cornici sono contornate da pavoni, interpretabili come simboli di resurrezione e di rinnovamento che si dissetano in fontane sgorganti d’acqua, simbolo di purificazione. Nelle quattro immagini, per con la costante presenza di un libro aperto su un leggio, si avvicendano tra le mani di ciascun evangelista, seduto o con i piedi appoggiati su uno sgabello, il rotolo (Marco e Luca) e il codice (Matteo e Giovanni), ossia le differenti forme di libro della cultura pagana e cristiana.

Il Tetravangelo del Fabroni si presenta come un codice di lusso nondimeno deputato, anche per il vario corredo di scritture supplementari (lezioni, sinassario, menologio, notizie introduttive, epigrammi) ad un uso liturgico.

Altro interessante esempio è un codice databile intorno alla metà del sec XIII che raccoglie opere e opuscoli geometrici di Euclide Archimede, Giordano Nemorario e Giovanni di Tinemue. Il codice membranaceo con fogli di guardia cartacei presenta numerose correzioni, annotazioni, disegni geometrici in margine e note di possesso che ci indicano la circolazione del testo in ambiente italiano. Questo testo, forse di provenienza romana, per la presenza di uno stemma riportato al suo interno, era sicuramente un testo scolastico tramandato di padre in figlio. Nelle ultime carte uno ‘studente’ poco assorto nella lettura vi ha lasciato alcuni tratti a sanguigna, un ritratto e la raffigurazione di un animale, forse un ghiro, segni della sua ‘estraneità’ alla materia.

Andando avanti con gli anni si può ammirare un manoscritto membranaceo del xv secolo nel quale sono raccolte le Epistole di S. Ambrogio, in scrittura umanistica, con l’indicazione della data , 1431, e del luogo, Firenze, in cui il volume fu scritto, posta sulla controguardia posteriore anch’essa in pergamena. Questo codice presenta un ottima legatura in pelle di capra marrone decorata a secco con piccoli ferri. Ogni piatto del volume è poi riquadrato da quattro cornici rettangolari impresse a secco, nelle quali la decorazione risulta molto fitta, equilibrata e assai raffinata.

Di una certa rilevanza un libretto di Horae databile intorno al 1470-80, con lettere iniziali istoriate, decorazioni a festoni. Si tratta di una raccolta di testi devozionali tra cui l’Officium della Vergine destinati alla nobiltà e alla alta borghesia urbana, molto diffuso nel XV secolo con un pratico formato tascabile, adatto all’uso quotidiano. L’ Officuim della Vergine, che costituisce il nucleo centrale del libro d’ore, consiste in una serie di salmi, preghiere e letture che debbono essere recitate nelle ore canoniche della giornata, da qui il nome “Libro d’ore”.

Tale piccolo, raro e prezioso codice miniato, appartiene a quel genere di manoscritti prodotti per una ristretta elite di lettori. I libri di devozione di piccolo formato raggiunsero l’apogeo alla fine del Cinquecento, grazie anche al clima di zelo pastorale seguito al Concilio di Trento. Se per i libri di consultazione in biblioteca si preferiva l’ in folio, formato adatto allo studio di tutte le discipline perché consentiva una consultazione più agevole e una maggior ricchezza di riferimenti, durante gli spostamenti si doveva optare per un formato pratico e maneggevole, ma non per questo privo di decorazioni e abbellimenti estetici.

Alla fine del XV secolo appartiene anche un bellissimo testo con eleganti decorazioni oro e pastello, il Liber de Ecclesiae Libertate, manoscritto di dedica per il re di Boemia e Ungheria Vladislao II in seguito posseduto da Bernardo di Cles, Principe Vescovo di Trento. Il testo composto di trenta fogli non numerati in pergamena è decorato da dodici ricche miniature poste al principio della lettera dedicatoria e degli undici capitoli dei quali si compone l’opera composta dal sacerdote tedesco Giovanni Bolkenhayn.